Uno dei grandi benefici portati da Internet al marketing è il meccanismo di influenza tra consumatori. È il primo effetto collaterale del “potere di parola” che Internet concede ai consumatori, ma spesso diventa anche un driver un motivo per usare la Rete: trovare occasioni, affari o, semplicemente, buoni consigli. Spesso questi consigli prendono la forma di recensioni o consumer reviews, se volete chiamarle all’americana. E sono una leva molto importante per le nostre decisioni d’acquisto.
Volete un esempio? Pensate a Trip Advisor se dovete scegliere un Hotel a New York. Non solo potete selezionare il vostro Hotel per livello, prezzo, zona, disponibilità. Il sito di reviews vi consente di leggere le opinioni di chi ci è stato prima di voi. E di scegliere in modo più consapevole. Internet abbonda di ricerche che ci raccontano di come le peer reviews godano di un alto tasso di credibilità tra i consumatori: vi riporto nel grafico qui sotto solo l’ultimo in ordine temporale.

Le opinioni di altri consumatori online (reviews) sono ritenute molto affidabili. Leggi la ricerca
Se per alcuni prodotti questo meccanismo di influenza prende la forma di vere e proprie recensioni (Viaggi, Hotel, Ristoranti, Eletrodomestici) per altri (Fashion, Auto, Food) una funzione analoga può essere svolta dalle conversazioni su blog e forum, dove consumatori e consumatrici si confrontano quotidianamente. La fiducia, insomma, è la moneta di scambio (currency) dei consumatori sui Social Media.
Fino a qui tutto bene. Vediamo però due evoluzioni che, da un lato amplificano questa opportunità per le aziende, dall’altro gettano una luce inquietante non solo sulle dinamiche di consumer influence, ma proprio sul rapporto di fiducia tra consumatore e azienda, consumatore e Rete e tra consumatori. Nonché conseguenze economiche di non poco conto.
A questo meccanismo di condivisione dell’esperienza, in cui gli utenti volontariamente contribuiscono con la propria recensione alla Rete, si è andato sommando nel tempo un nuovo fattore: l’incrocio di tali recensioni con il proprio Social Graph. Spiegato con parole semplici significa che le nostre recensioni sono evidenziate con maggior rilevanza ai nostri amici. Molto utile, per chi legge, sapere che quel parere proviene da una persona nota. Ma era nelle intenzioni di chi lo ha fatto?
Testimonial (in)consapevoli 1.
Nel caso qui sotto, illustrato da Google stessa nella propria pagina di Guidelines degli endorsement (così Google chiama le reviews), vediamo come a una recensione, lasciata su una location su Google Maps da un’utente, siano spuntate le gambe e abbia iniziato a circolare sul web. La review di Katya viene mostrata ora all’interno di un annuncio pubblicitario a pagamento dell’azienda che Katya ha recensito.
Sicuramente in un qualche momento abbiamo schiacciato il tasto agree e abbiamo concesso alla piattaforma in questione di fare tutto ciò e rivendere questa informazione e la nostra identità a un’azienda.
Ci sono, però, alcune domande che sorgono in casi come questi:
– Quante persone si rendono conto che quando lasciano una review autorizzano il sito in questione a trasformarle in testimonial del brand che recensiscono?
– Si può tornare indietro? Posso revocare questo diritto e chiedere di essere rimosso come testimonial?
– Continueremo a fidarci di queste recensioni? Continueranno ad apparirci autentiche, posto che lo siano davvero mai state, così ri-contestualizzate?
– Le persone si fideranno ancora di chi ha fatto la recensione? O lo riterranno pagato dall’azienda, screditando anche altre sue future recensioni?
Come dicevamo le conseguenze sono particolari (e riguardano la relazione tra ogni singolo utente e l’azienda in questione, il sito intermediario e la Rete in generale dil rapporto di fiducia che esso ha con questi soggetti), ma anche universali andando a cambiare la percezione generale del sistema Internet e delle relazioni di base tra i suoi cittadini.
Testimonial (in)consapevoli 2.
Se nel caso al punto sopra l’utente sapeva di aver lasciato un parere pubblico, e lo aveva fatto intenzionalmente per raccomandare o criticare quel servizio (ignorando solo la maggior diffusione e l’associazione al brand della sua opinione), ci sono altri casi in cui ci si ritrova endorser (raccomandatori o testimonial) di brand o aziende senza aver mai avuto questa intenzione.
Ci sono, infatti, alcuni strumenti di pianificazione pubblicitaria, quali le Sponsored Stories di facebook che prevedono che la piattaforma (ie facebook) possa ripubblicare i like o i commenti che gli utenti fanno sulle pagine di un brand sotto forma di annunci pubblicitari, dei quali gli utenti diventano inequivocabili testimonial. Una soluzione simile è stata recentemente adottata anche da Google.
Anche qui sono certo che sia tutto in regola (nonostante alcuni giudici americani paiano essere di parere opposto, poi lo vedremo) e che il bottone “I AGREE” sia stato schiacciato, autorizzando l’autorizzabile. Ciò che balza agli occhi, in questo caso, è l’assenza di volontà di esprimere una raccomandazione rispetto a un brand o azienda, dato che troviamo solo la volontá di raccontare ai propri amici cosa si sta facendo. Trasformare questo (racconto personale) in un endorsement e l’autore di quel racconto in un testimonial è sicuramente una scelta molto efficace, ma anche con conseguenze di non poco conto.
Sicuramente lo strumento funziona, sia per ampliare la base della propria community sia per aumentarne e pilotarne la partecipazione (engagement). Ci sono, in ogni caso, alcune domande che sorgono spontanee:
– La persona trasformata in Testimonial lo sa? A quale punto del processo? Ne ha il minimo controllo?
– Quanto sono misurabili i risultati di avere come testimonial presso un target molto selezionato (i suoi amici e contatti) un semplice consumatore?
– Anche ammesso che il tasto LIKE o +1 o quel che sia venga schiacciato sempre come apprezzamento (e non magari solo per ricevere aggiornamenti o addirittura poter lamentarsi con un brand): schiacciare “LIKE” a una pagina può essere equiparato a accettare di diventarne testimonial?
La faccenda è poco chiara anche per i facebook executives (vedi video sopra) ed è talmente controversa che in USA sono attive varie Class Action (cause collettive a cui i consumatori possono aderire).
In una di queste un giudice ha stabilito un risarcimento di 20 milioni di dollari ai consumatori coinvolti nelle Sponsored Stories di facebook come testimonial inconsapevoli che non avevano sto il loro consenso. (Link)
Un’ultima domanda per entrambe le ipotesi e che riguarda la disciplina pubblicitaria. È fair per un’azienda pubblicare endorsement di testimonianza a favore della marca selezionati unilateralmente tra tanti presi in rete senza dire che e come è stata fatta una selezione? Di sicuro negli Ads a pagamento non appariranno quelli negativi! Non si rischia così di incorrere in una pratica ingannevole?
Per concludere, trovo questi strumenti molto potenti e molto utili. Sia alle aziende sia ai consumatori, che vedono ampliata la propria capacità di scelta dal confronto con altri consumatori. Non voglio pormi né dalla parte degli entusiasti a prescindere, né di chi critica aprioristicamente chi sta innovando il mercato pubblicitario.
Credo le piattaforme digitali di advertising portino con sé maggior trasparenza rispetto ai mercati di negoziazione a porte chiuse e ai sistemi senza rilevazione o a rilevazione simulata e controllata (TV, Auditel). Ma penso che siano sistemi ancora immaturi, in cui alcuni soggetti stanno correndo a grandissime velocità e il resto della società (consumatori, associazioni, agenzie, editori, inserzionisti) deve ancora raggiungerli e discutere assieme le regole del gioco.
Ben venga, insomma, la collaborazione e l’uso da parte delle aziende di questo materiale, ma forse la manipolazione andrebbe pensata o regolata nell’interesse del consumatore, ma in ultima istanza anche del sistema e della sua credibilità e quindi dell’inserzionista.