Per il New York Times: “It’s not a crime“, insomma “Si può fare!“. Non occorre pretendere che gli smartphone users (che tengono il telefono verticale) girino la testa, ma possiamo noi girare i video secondo la loro inclinazione.
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QuickType™ o “Slow Writing”? Quando scrivere è scegliere.
Torno ancora sul tema della WWDC 2014 di Apple dove la Human-Computer interaction e sulla Cognitive Technology hanno avuto un ruolo di primo piano e centrale, come mai prima, nel tracciare le traiettorie di sviluppo dei prodotti di Cupertino.
Fuji Marketing – Come i Giapponesi hanno trasformato un vulcano in un simbolo del paese.
“Qual è il simbolo del Giappone?”
“Quirinale Domination”: quanto costa? (e quanto vale, se vale?)
Esiste un formato publicitario che si chiama “domination”, lo avrete visto quando siete entrati in qualche stazione ferroviaria e tutto, dai bagni ai binari, recava il logo di qualche Telco o Car Maker. Ma anche quando aprite un sito di informazioni e non trovate informazioni ma layer e layer di pubblicità di un produttore di auto o di birra. Questa sera mi sono imbattuto, navigando il menu di Repubblica.it in questo banner (che prelude a sezioni interne dedicate al Quirinale totalmente e unicamente “dominate” da Auto e Van di FORD):
La cronaca sul più importante quotidiano italiano della più importante carica dello Stato in un passaggio istituzionale tanto delicato quanto quello che stiamo vivendo diventa un pacchetto pubblicitario. Al di là delle implicazioni democratico/elettorali, su cui non voglio nemmeno entrare, io lo trovo di cattivo gusto e inopportuno. Sbaglio? Non c’è più alcuna sacralità (o anche solo “area di rispetto”) nelle istituzioni? Non mi sembra nemmeno una buona idea per la FORD, associarsi a una situazione tanto politicizzata, instabile, critica. Ma forse mi sfugge qualcosa.
Voi cosa ne pensate?
“Per Natale vi regalo una lista”

Digital Traveller – Ci vediamo oggi in BIT?
Sono stato invitato a moderare due panel oggi pomeriggio alla BIT. In uno parlerà Marco Centauro, Responsabile commerciale Sud Europa di facebook. In un altro ci saranno:
Fabio Lalli di Indigeni digitali / Alessandra Niada di Best Western / Michele Mangiatordi di Moby / Gualtiero Carraro di TelecomDesign / Gianluca Cangini di Diennea

Boiron usa rimedi allopatici per il web marketing
Pare che la multinazionale francese dell’omeopatia BOIRON abbia minacciato di denunciare un piccolo blog italiano, intimando la rimozione dei contenuti ritenuti diffamatori. In rete se ne sta parlando moltissimo (e l’immagine di Boiron non ne sta uscendo benissimo, né quella dell’Omeopatia: seguite un po’ di link cliccando qui, qui o qui). Non mi interessa entrare nel dibattito se l’Omeopatia sia da difendere o meno, ma analizzare l’ennesimo caso di minacce legali verso la Rete, specialmente in questo caso in cui un’azienda che adotta la filosofia Similia_similibus_curantur decida invece di “curare” il “problema” della propria immagine con rimozione chirurgica e con la minaccia di denuncia: un rimedio dissimile, allopatico e anche – non mi denunci Monsieur Boiron – un po’ antipatico 🙂
La questione, a mio modo di vedere, tocca i fondamentali della Rete, del diritto, della libertà di espressione e delle relazioni pubbliche. È chiaro che deve restare fermo il diritto di chiunque (persona e azienda) di non vedersi diffamato ed è altrettanto chiaro che il reato di diffamazione deve continuare a trovare nei tribunali la sede del suo accertamento e esecuzione. Il punto da discutere, a mio avviso, è se ricorrere, come nel caso di specie, a questi rimedi sia efficace. Ovviamente è impossibile stabilire una regola generale, ed è chiaro che valori quali la dignità, il decoro, il diritto a fare business (non erano qui in gioco) vadano salvaguardati. Ovviamente vanno salvaguardati i diritti di un’azienda, non solo di una persona, a tutelare la propria immagine e reputazione. Non è però sempre detto che sia la denuncia/diffida il rimedio migliore. Specialmente sul web.
Diffidare e denunciare i blog: le conseguenze
La Rete è un organismo vivente, multicellulare, dove le persone esprimono libere opinioni per le quali devono certamente rispondere, ma che sono pronti a modificare, ma soprattutto o a discuterne. È proprio il dialogo, la chiave di “ingaggio” della Rete e iniziare un dialogo con una denuncia, beh, non è forse il modo ideale. Salvo casi estremi, come indicato sopra, credo che denunciare un blog per ottenerne la rimozione dei contenuti sia un rimedio (oltre che culturalmente lontano anni luce dall’omeopatia) inefficace per i seguenti motivi:
– di fatto i contenuti non verranno mai rimossi, in quanto saranno sempre accessibili attraverso archiviazioni, cache e ripubblicazioni spontanee a sostegno del “minacciato” che sono un comportamento di solidarietà molto frequente in rete
– la denuncia di una multinazionale contro un piccolo blog non appare mai come qualcosa di positivo per la prima, se a volte può funzionare per difendersi da un giornale o una rete televisiva, in casi come questi l’azienda finisce subito per essere vista come “il cattivo”
– non si costruiscono relazioni, ma le si distruggono e in uno spazio altamente relazionale quale il web è una scelta negativa
– si finisce per amplificare quello che si voleva smorzare: “Una smentita è una notizia data due volte” diceva un vecchio politico italiano, “Una denuncia a un blog è un post moltiplicato cento volte” potrebbe dirsi oggi
– si perde la possibilità di diventare parte del dialogo, in quanto si porta il dibattito fuori dalla Rete e le proprie posizioni e eventuali sostenitori di esse non trovano quindi luogo e visibilità online
Se vi vengono in mente altri motivi, vi prego di indicarli nei commenti, così che possiamo sintetizzarli una volta per tutti,magari in un post successivo.
In sintesi: denunciare i blog quasi sempre è un rimedio inefficace.
Non è quindi una questione di diritto, né di etica, ma di efficacia. Credo che nella maggior parte dei casi, e sicuramente in questo, la strada della diffida/denuncia non vada perseguita. E si può dire questo in quanto trovo la denuncia contro i blogger una strategia INEFFICACE da un punto di vista di comunicazione, e non per questioni di principio, di diritto o di etica o, meno ancora di libertà di opinione (che in un sistema democratico non viene messa in pericolo da una denuncia, ma casomai dalla sentenza).
È importante capire questo, perché è a mio modo di vedere l’unico argomento che la maggior parte delle aziende ascoltano: l’efficacia, il ritorno. È difficile invece sensibilizzare molte aziende con il tema dell’etica.
L’importanza della buona consulenza
È chiaro che alla Boiron sono mancati buoni consigli. Per assurdo Boiron ha anche un blog, che pare non incidere molto, ma nonostante cerchi di entrare in questo mondo denuncia gli altri blogger. Difficile pensare che un blog che diffida in prima istanza, senza dialogo altri blog avrà mai il loro gradimento: è una questione di “cittadinanza digitale”.
Boiron non ha solo denunciato i blog, ma a quanto pare in passato li ha anche pagati per scrivere (bene?) di sè. Cercando un po’ in rete ho trovato alcuni post (1 | 2 | 3 e immagino molti altri post “sponsorizzati”… ). È una vecchia questione, quella dei “Post Sponsorizzati”, che curiosamente riemerge nel caso di un’azienda che ora denuncia i blogger. 🙂
Come dicevamo, la sensazione è che sarebbe stato utile se qualcuno avesse spiegato a Boiron che su Internet funzionano meglio i rimedi omeopatici, come la conversazione, che quelli allopatici come le denunce, ma non ti aspetteresti di doverlo fare 😉
Voi che ne pensate?
Whyred?
Nelle ultime settimane le due testate italiane che si occupavamo di Internet e innovazione hanno salutato i propri direttori. Riccardo Luna a brevissimo lascerà la direzione di Wired che aveva aperto e Luca De Biase lascerà quella di Nòva che ha condotto per molti anni rappresentando un punto fermo nella costellazione del web.
A modo loro (un modo molto diverso) Wired e Nòva tenevano aperto un dialogo, una conversazione, un dubbio: quello che il futuro potesse essere immaginato da chiunque lo sapesse sognare nel modo giusto e non solo dai cicli finanziari che già governano il presente. Nòva da parecchi anni godeva del rispetto di una nutrita schiera di imprenditori, giornalisti, consulenti, blogger. Wired aveva generato in poco tempo attorno a sè una fervida community. Così in questi giorni per le strade di Milano e per quelle del web serpeggia una sola domanda: Why? Perché?
Ho storpiato il titolo del post in Whyred? proprio per questo. Non per dare una risposta a un quesito (anzi due) che forse di risposte ne hanno troppe, ma per condividere un momento di spaesamento, in cui due forze che spingevano il paese in avanti vengono fermate senza un motivo apparente o dicibile.
Quindi continuiamocelo a chiedere: whyred? Perché dobbiamo rinunciare a Riccardo e Luca? Ma forse non dobbiamo nemmeno rinunciare a loro, ma solo seguirli altrove: sui loro Blog o su Twitter. Forse con la loro uscita dai rispettivi giornali Luca e Riccardo ci stanno, ancora una volta, indicando il futuro: le notizie che ci interessano non è detto che passino sempre per i giornali.
YouTube: presidenti a confronto.
È talmente reale ciò che arriva attraverso la rete e YouTube che diventa quasi imbarazzante. Attraverso il web arrivano senza filtri le opinioni delle persone, la vita delle aziende senza il maquillage degli spot e anche la voce dei politici, senza calze sulla videocamera e senza l’artefatto delle tibune politiche. Ecco come si presentano su YouTube i presidenti degli Stati Uniti d’America Barack Obama e dell’Italia Giorgio Napolitano.
Barack Obama
- Diretto (con un video fatto ad hoc per YouTube)
- Vicino (sorride, ha una presenza calda)
- Chiaro (parla guardando in macchina, in un linguaggio semplice e coi sottotitoli)
- Aperto al dialogo (spiega le sue decisioni e accoglie centinaia di commenti)
- Ordinato e curato (un canale curato sin nei minimi dettagli)
Giorgio Napolitano
- Riciclato (sono tutti spezzoni TV caricati su YouTube)
- Distante (è sempre ripreso da lontano, a volte con macchina traballante e in pose che ne evidenziano l’età)
- Retorico (parla per la TV, per luoghi comuni, non alla gente)
- Disinteressato al dialogo (commenti disattivati)
- Trascurato (un canale approssimativo in tutto, dalla grafica ai testi)
Insomma il confronto è impietoso, e i difetti sono tutti imputabili a una gestione del canale che si dimostra priva di obiettivi e di conoscenza della rete, sembra quasi che il canale sia stato aperto per prendersi della facile copertura stampa in occasione del messaggio di Natale del 2009 e che ora vivacchi semiabbandonato, dando al paese l’ennesimo disservizio e contribuendo a consolidare un’immagine dell’Italia come paese tecnologicamente arretrato, pressapochista e vecchio.
Zooppa/UPIM: i limiti dei concorsi creativi online iniziano a farsi sentire?
È abbastanza duro il pezzo di stamattina su AdvExpress, sul nuovo logo UPIM disegnato da uno dei 4.740 partecipanti al concorso indetto su Zooppa. La critica verte su due fattori: una somiglianza con il celebre logo Accenture (ritenuta qui senza un senso compiuto) e la constatazione che “pezzi” di comunicazione strategici, come un logo, richiedono l’intervento di professionisti che conoscano il brand, che lavorino il tempo e coi mezzi necessari e non un concorso (e qui sono molto d’accordo). L’articolo gira da oggi nelle principali liste di pubblicitari e lo si trova su ADVExpress con la seguente opinione di Antonio Marazza, general manager di Landor Italia:
“L’idea del nuovo logo di Upim non è molto originale: graficamente, il segno che caratterizza il logo è uguale a quello di Accenture, il cui rebranding su scala globale è stato gestito da Landor nel 2001. Anche la motivazione alla base della scelta è poco convincente: nel caso di Accenture invece c’è un chiaro legame tra posizionamento di marca, nome e identità: il concetto di ‘accento sul futuro’, che riassume la visione di una azienda che mette in pratica l’innovazione per cambiare e migliorare il modo in cui il mondo vive e lavora. Il caso Upim – ha continuato Marazza – dimostra ancora una volta che non ci sono scorciatoie: la creazione di una identità di marca è una attività strategica, che deve gestita attraverso un processo collaudato e guidata da professionisti“.
[Leggi l’articolo integrale su AdvExpress (previa registrazione).]
Di diversa opinione uno dei giurati, Francesco Morace che (sul blog di Zooppa) parla di “creatività degli sciami e non più delle agenzie monolitiche e multinazionali” e di “un paradigma nuovo nel quale creatività dal basso e quantità di stimoli si sono poi tradotti in qualità della proposta”.
Il fatto, poi, che questi concorsi privilegino la partecipazione rispetto alla qualità, pare capirsi dalle parole di Alessandro Cappellotto (communtiy manager di Zooppa nel video in cui si annuncia il vincitore), Alessandro si preoccupa di ribadire: “siamo contenti della grande partecipazione che c’è stata, sappiamo che c’è molta attesa […] e ci sono tante aspettative, ci dispiace che solo una persona potrà vincere…”. Insomma Zooppa (giustamente) si preoccupa della sua community e di come tenerla contenta, più che dell’effettivo valore del lavoro realizzato.
Non sono così sicuro che in nome del crowdsourcing si possano azzerare i livelli e mettere tutti i talenti sullo stesso piano, rischiando di azzerare anche la qualità. I designer e le agenzie che hanno costruito la fortuna di molti brand è giusto che costino molto, e forse devono essere proprio loro il primo interlocutore naturale quando un’azienda vuole ripensare la propria immagine.
Costruire un logo vuol dire fare la sintesi massima dell’identità di un’azienda. È una cosa dannatamente difficile, forse è l’esercizio di comunicazione più difficile in assoluto per un creativo. A mio modo di vedere non va bene trattare una cosa importante con la leggerezza di un concorso sul web: serve una ricerca accurata di talenti qualificati, la costruzione di un rapporto tra l’azienda e i designer, un presidio strategico sull’intero processo. Poi lo si può fare online o offline, dentro una community o come volete, ma servono tutti questi elementi: servono talenti di grande esperienza per fare un logo di livello, altrimenti la differenza si sente.
Per finire il punto NON è nemmeno quanto sarebbe costato il logo realizzato da “una grande agenzia” (posto oltretutto che 12.000$ non sono per niente pochi, a cui ne andranno sommati, immagino, almeno altri 15.000€ o più dati alla piattaforma!), ma quanto rischia di costare un logo che a un’analisi critica di professionisti mostra da subito delle debolezze.
Voi che ne pensate? Del nuovo logo UPIM e della creatività crowdsourced realizzata su marketplace online?