Renato, Renato, Renato…

Echeggia ovunque il nome di Renatino, il lavoratore (virtuale, da spot s’intende) del Consorzio del Parmigiano Reggiano. E la memoria corre alla canzone di Mina in cui Renato è un ragazzetto poco sveglio che non si fa sedurre. 

Non sembra tanto sveglio nemmeno “Renatino”, uno dei protagonisti del nuovo spot del Parmigiano Reggiano. 


Viene definito dal suo superiore 8il suo datore di lavoro? Un rappresentante del consorzio?) “un additivo”, Renatino, “che lavora qui da quando aveva 18 anni tutti i giorni 365 giorni l’anno”.


“E sei felice?”(…)


Renatino annuisce accondiscendente davanti al padrone o al responsabile del suo Consorzio (laddove Renato sia il padrone di se stesso, il casaro) che lo ha definito un additivo e che non si è preoccupato che abbia dei giorni di pausa o di fargli fare della formazione. Lo spot tocca la rete e diventa parodia e polemica. Era difficile immaginarselo? Francamente penso di no, penso fosse molto facile, leggendo lo script, immaginarsi che non sarebbe stata una bella scena. 


C’è chi ha parlato di linguaggi televisivi prestati alla rete, ma credo si tratti di una lettura davvero miope. La comunicazione i suoi derivati, ormai, sono transmediali. 


Il problema è la cultura. La cultura del lavoro, della comunicazione, del prodotto. Il Parmigiano è una eccellenza del nostro Paese, un prodotto del territorio, figlio del lavoro duro (e si spera con dei meritati riposi!) di pastori, allevatori, casari. Un lavoro usurante, pesante, ricco di soddisfazioni, ma faticoso e che merita rispetto e celebrazione, non ammiccamento e pacche sulle spalle. Non una rappresentazione come Renatino, un po’ scemo, ma “così carino, così’ educato” per dirla con Mina. Non deve per forza essere raccontato con toni epici: bene l’ironia, ma DEVE essere raccontato con fairness e correttezza. Che qui mancano, Renato è “un addittivo”. Non parla. Lavora 365 giorni l’anno. Muto. Da quando ha 18 anni. Non ha mai fatto carriera e se è un piccolo imprenditore è ancora e sempre piccolo (ma allora il Consorzio che ci sta a fare?).. Una immagine tragica, più che comica, dei nostri uomini (e donne?) che producono una eccellenza italiana.


La cultura della comunicazione, ormai stritolata tra verità e finzione. Un reality (con edizione interminabile di 30’), quello dove recita Renatino, più falso di una moneta di plastica, per un prodotto che vive di autenticità, di verità. Che strategia è? Il “fake” peraltro, difficilmente è poi divertente. Su Netflix, le “series” sono finzione, che però raccontano una verità e spesso sono ricche di poesia e di potenza. I Reality, pretendono di esser veri, ma sono una “metaverso” di banalità e ipocrisie. Patacche. L’animazione, molto usata nei Paesi anglosassoni in queste situazioni e che crea uno spazio unico e interessante tra finzione e verità, come racconta bene Giulio Leoni, nel nostro Advertising è una sconosciuta.

La comunicazione oggi  troppo spesso non capisce, la sfida che ha davanti. Quando si chiede alle aziende “di essere autentiche”, “sostenibili”, “responsabili” non si sta chiedendo loro di scopiazzare il Grande Fratello. Per quanto scarso, meglio l’”originale” a questo punto. Non si sta nemmeno chiedendo loro, per forza, di far solo documentari. SI sta chiedendo di essere “citizen”, consapevoli e con un ruolo nella società. 


E no, non dipende dall’aver usato un “regista televisivo”, dipende dall’aver scritto una storia da due soldi, siamo sicuri non corrispondente al vero. Nel non avere abbastanza sviluppata una “sensibilità sociale” che oggi i consumatori (in TV come sul Web) hanno più dei marketer.  La buona notizia è che, lavorandoci 365 giorni di fila, magari, la si può imparare, anche in meno di 18 anni…
Altrimenti la tua storia la scrivono i consumatori, e se Renatino parla…

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