Passo le giornate a osservare i comportamenti delle aziende sul web e ho un sentimento ricorrente: la solidarietà. Per coloro che operano nel marketing e nell’ADV e che sono abituati a spot scintillanti girati in 70 mm, Jingle in dolby surround, foto da galleria d’arte, impaginazioni grafiche da museo. Le marche, infatti, sono abituate a comunicare con una perfezione stilistica totale e oggi si ritrovano di punto in bianco immerse in una vasca in continuo fermento dove la gente le chiama col nome sbagliato, fa loro il verso in contro-spot spesso più popolari dell’originale, ne prova i prodotti e ne parla in pubblico (e non sono modelle, ma consumatrici brufolose e sovrappeso). Solidarietà – sincera – perché sento il disagio che provano coloro che sono i detentori del linguaggio della marca. Sento che si chiedono, nei confronti della Rete: devo davvero portare il mio brand lì dentro? E come?
Perché accade tutto ciò? Perché non è possibile trovare su Internet l’equivalente di canale 5 dove pianificavi per una settimana un bello spot girato da Tony Scott e “colpivi” 8 milioni di persone che il giorno dopo compravano il tuo merluzzo fritto?
A mio avviso per tre motivi:
– Internet non appartiene a nessuno
– Il Social Web è costruito su misura per le persone e non per le corporations
– Sul web si viene a sapere (quasi) tutto
Muoversi in questo contesto con un approccio tradizionale crea effetti collaterali indesiderati. Passi goffi, enunciazioni di marca balbuzienti e insicure, tanto rumore, spesso, per nulla. Le marche sul Web hanno vita dura, perché vengono analizzate, testate, discusse, messe alla prova, commentate, criticate, attaccate, difese, osannate, boicottate, in una parola… vivisezionate.
1) LA VIVISEZIONE DEL NOME.
Avete presente tutte quelle pagine su facebook in cui le aziende si presentano con il suffisso “Italia”. Non me ne vogliano i citati come esempi, sono i primi che ho trovato…
Adidas Football Italia (che sceglie come URL addirittura facebook.com/adidasfootball.it col .it)
Nike Football Italia (URL facebook.com/nikefootballitalia)
Samsung Italia (twitter.com/samsungitalia)
Renault Italia (http://twitter.com/renaultitalia)
Potrei continuare all’infinito, e comprendo le logiche burocratiche perché ciò accade, così come rilevo l’assenza di una strategia di marca globale. Pongo una prima domanda, a cui poi cercheremo di rispondere in seguito: che effetto ha questo suffisso sull’identità di marca? Voi fino a oggi conoscevate, compravate e amavate delle scarpe Nike o Nike Italia? Guidate una Renault o una Renault Italia? Poi ci torniamo…
2) LA VIVISEZIONE DELLE STORIE.
Proviamo ora a pensare ai banner, al primo che vi viene in mente, anzi, faccio una cosa: apro un sito e faccio alcuni screenshot del primo banner che ci trovo, così non faccio preferenze. Torno subito…
Rieccomi… Io ricordo gli spot Collistar, con modelle giovani e sgambettanti e un Jingle fresco e seducente: impossibile trovarlo oggi su Internet (se cercate “pubblicità Collistar” su YouTube escono reviews di consumatrici indipendenti). Oggi Collistar raggiunge le sue consumatrici con uno slideshow singhiozzante e prodotti larghi 35 pixel, ma cos’altro può fare negli spazi interstiziali lasciatigli dagli editori online? Vale per tutti, non solo per Collistar, che ho preso a prestito come primo trovato, il problema è il territorio, lo spazio a disposizione (casomai l’approccio), ma non il brand.
Troppo spesso dai banner i Brand balbettano slogan e mendicano click: alza il volume, scopri tutto, clicca qui, visita subito… Pongo una seconda domanda, a cui poi cercheremo di rispondere in seguito: che effetto ha tutto questo sull’immagine di marca?
3) LA VIVISEZIONE DEL COMPORTAMENTO.
A quanto sopra aggiungiamo un terzo fattore: non ci sono più barriere tra dentro e fuori l’azienda. Il comportamento dei manager e dei dipendenti è esposto in qualunque momento. I trend di borsa analizati e discussi in tempo reale, i C.d.A. rilanciati su Twitter. Basti pensare al caso Domino’s Pizza in cui i dipendenti di una catena americana di pizza sono sono stati beccati su YouTube con le mani in pasta e in un sacco di altri posti schifosi, o a casi di manager nostrani e così via…
Proprio in questi giorni in Italia nasce un sito di Company Reviewing: i dipendenti online recensiscono anonimamente il proprio posto di lavoro: ne leggeremo delle belle su Sopo.it. Insomma, quel che succede dentro un’azienda NON resta dentro un’azienda. Pongo una terza domanda, a cui poi cercheremo di rispondere in seguito: che effetto ha tutto questo sulla reputazione di un’azienda?
Dalla marca “Show Business” alla marca “Entertainment”.
Ci siamo posti tre domande: che effetto avrà sui consumatori il dover specificare che non è Renault che parla, ma la filiale italiana ( o, domani, il concessionario di Trapani)? Disorientamento e perdita di forza. Una marca farà sempre più fatica a parlare con quella voce e proposizione unica che i Mass Media consentivano. Un coro di rappresentanti, che per forza di cose non saranno mai bravi a comunicare come una funzione dedicata, rischiano di confondere il consumatore e di lasciargli un ricordo di marca debole e confuso.
Che effetto avrà sull’immagine di marca un racconto in 4 frame dopo aver abituato per anni a cortometraggi d’autore? Temo raffreddamento e delusione. Quanto può andare avanti un brand che per decenni ha sedotto i consumatori a rappresentarsi all’improvviso come zoppicante e vestito male?
Che effetto avrà sulla reputazione di un’azienda, ci siamo chiesti infine, una crescente trasparenza? Immagino perdita di potere negoziale, nei confronti del mercato e del canale.
Viviamo però in un mondo sempre più connesso dove solo grandi aziende hanno la forza per accedere ai benefici logistici del mercato globale. Come superare questi ostacoli, dunque? A mio avviso correggendo la rotta, a patto che lo si faccia dalla plancia di comando e non si pretenda di farlo dalla stiva. Internet richiede di ri-orientare un’azienda verso il mercato, tenendo conto che sul web l’opinione di un consumatore può valere più di quella di un testimonial. Se il Top Management saprà leggere il territorio, saprà anche tirare le leve giuste per portare la propria azienda a essere più trasparente, più empatica, più capace di intrattenere in modo concreto, ma anche appassionante il proprio mercato, e non solo stupirlo con “effetti speciali”.
UPDATE
La conversazione su questo post si sta svolgendo anche su Friendfeed e facebook.
Marco, le cose che scrivi sono vere, ma “solidarietà” nn è la parola giusta per descrivere quello che provo io nei confronti dei brand. I segnali del cambiamento erano percepibili in modo chiaro già da tempo, e il fatto che oggi i brand – e chi ne gestisce la comunicazione – continuino a balbettare, come dischi rotti, formule ormai inadatte, mi da più fastidio che altro.
Mi rendo conto che le aziende, soprattutto quelle “globali”, hanno tempi di decisione e reazione necessariamente lunghi, ma consentimi, hanno anche una quantità di risorse (e continuano a spenderne a pacchi su canali obsoleti) che gli consentirebbe di fare progetti innovativi, di cambiare prospettiva, di creare valore – e cambiare in modo radicale prima la loro sostanza, e, come necessaria conseguenza, anche la loro immagine.
Non sono riuscito a trovare un termine più adatto, però 🙂 E occhio che non è “verso i Brand“, ma verso chi lavora all’immagine di marca, le persone cioè. Se da un lato è vero che i segnali ci sono da molto, dall’altro è anche vero che se non viene dall’alto della tua azienda, un segnale difficilmente viene ascoltato. Giusto il tuo discorso sulla responsabilità, dunque, anche se in questo momento credo ci sia più bisogno di promuovere la cultura dei Digital Media, più che responsabilizzare chi non ha reagito con prontezza.
Sì, sperando che la cultura dei Digital Media arrivi anche a contagiare le persone che stanno ai piani alti delle aziende 🙂
Se non arriva lì, non farà mai molta strada… 🙂
Le risposte andrebbero meditate ma una secondo me la si può dare subito: le “marche” nascono nel ‘900 appoggiandosi ai/e sospingendo i linguaggi di massa. Sperimentando con i media nuovi nei diversi territori (ricordate Carosello in Italia tra vincoli ed invenzioni?). Si tratta ora di scendere con umiltà nei linguaggi della Rete, di sperimentare e non clonare lì dentro cose fatte per i media mainstream; si tratta di avere un management formato a questi linguaggi e con voglia di innovare lì dentro; si tratta di avere consulenti capaci di traghettare all’interno della Rete mostrando come vi sia una connessione necessaria tra dentro e fuori, ecc.
Si tratta cioè di avere la cultura e avere il coraggio di produrre lì la cultura dei brand.
Grazie dell’Intervento Giovanni.
Marco, profondamente colpita ma non affondata 🙂 Al contrario lotto per tenermi a galla e per portare l’azienda nella giusta direzione. Capisco fortemente il tuo sentimento di solidarietà. Se è per le persone, lo viviamo insieme ogni giorno. Credo che il cambiamento non sia inevitabile ma sia già in atto e quindi non abbiamo altra scelta che capirne la direzione e navigare a vista. Per me è talmente sfidante che trovo energie impensabili un tempo. Alessandra ha immensamente ragione quando dice che il commitment deve venire dall’alto. Senza saremmo noi del digital dei dischi rotti.
Grazie Luisa della tua testimonianza.
Un aggiunta a margine al tuo eccellente post.
Sarebbe interessante, fra molto tempo, comparare i risultati di Sopo con quelli di Great places to work.
Ciao!
Zeno
Grazie Zeno, in effetti ho preso SOPO come pretesto (visto che è appena uscito) per parlare di come le aziende siano sempre più esposte.
ciao marco, mi piacerebbe parlarne anche ai vecchi 4 occhi di questo tema attualissimo. io sono parte della gente che lavora alla marca da parecchi anni e devo dire che sinceramente credo non sia solo nell’uso più o meno sapiente del web la soluzione.
e soprattutto che la soluzione non sia così immediata come sembra. qualsiasi marca, come tale, vive di autoaffermazioni facilmente opinabili in un mondo “portinaio” e dissacrante come quello del web che, proprio perché libero e indipendente, male accetta la presenza del nemico. e a questo punto appare chiaro come l’essere in un luogo dove nessuno ti vuole è vita davvero dura, aldilà del sapere come arrivarci.
io amo il web più di ogni altra cosa, amo il suo potere e la sua forza di libertà. come amo anche le marche che sanno comunicare, posizionarsi, convincere. ma se penso alle marche sul web provo subito una sensazione di rifiuto che ancora non ho capito come aggirare. la sensazione che il web sia nello stesso momento il luogo più importante e più scomodo per una marca che debba fare “fumo” e non solamente “arrosto” è al momento fortissima. buona serata e grazie per un post davvero interessante
Forse il vero problema/opportunita’ e’ che su questi “nuovi media” servono figure professionali differenti con caretteristiche personali differenti capaci di creare contenuti e comunicazione in modo differente.
Il processo di comunicazione e’ diverso.
Se guardi l’utilizzo che molte aziende fanno dei loro profili “corporate”, su ad esempio facebook, ti accorgi che e’ banale.
Le ragioni possono essere diverse ma il risultato e’ questo.
Eppure e’ propria la parte piu’ intangibile della azienda, che all’interno dei socialnetworks, potrebbe essere esaltata. Il brand, la parte legata alla responsabilita’ sociale ed ambientale, alla responsabilita’ del lavoro e del rispetto del lavoro all’interno della azienda, tutti quegli elementi invisibili ma che rappresentano una parte del “valore/patrimonio” della azienda, della “capacita’ di penetrazione sul mercato”, della Creazione della Esperienza sul “Cliente/Consumatore/Cittadino” finale.
Perche’ non si da spazio a queste nuove figure? Perche’ il management non le riconosce, perche’ non le trovi all’universita’ (o comunque l’universita’ non ha corsi e formazione su qualcosa che e’, in certi casi, ancora sperimentale), perche’ significa cambiare la distribuzione del “potere” all’interno della struttura decisionale-organizzativa e la sua percezione, perche’ sono figure che devono avere una visione globale della azienda, con competenze e cultura molto estesa e capaci di sintetizzarla in contenuti di comunicazione che usano un tipo di intelligenza “trasversale, emotiva ed alternativa” (forse non sono neanche facili da trovare).
Spesso si vede, quindi, un utilizzo, per cosi dire, “tradizionale” di questi profili/canali/media che va a insistere su quella parte che dovrebbe essere sperimentata per ultima … cioe’ “i dettagli di un prodotto, di una soluzione” [solo dopo avere consolidato gli altri elementi/”elementi”].
Ma sono solo “opinioni personali”. Ciao
Ciao Marina, con piacere proviamo a parlarne a 4 occhi. Sono de tutto d’accordo con quello che dici, quello del web e l’identità di marca è un problema ancora irrisolto…
@Fabio sicuramente le persone e i talenti sono parte della soluzione, ma se prendessimo un grande brand e gli dessimo un dream team di giovani comunicatori nativi della rete, avrebbero delle linee guida o dovrebbero “inventarsi” come far parlare la loro marca su Internet? È questo il problema a cui facevo riferimento, siamo su un territorio completamente inesplorato, è il suo fascino e la sua problematicità.
Mah, non è del tutto vero che le marche su Internet nessuno le vuole. Ritengo che Apple, con tutti i suoi difetti di “orientamento al marketing”, abbia un buon seguito. Così come marche di culto come Harley Davidson, Ducati, alcuni prodotti alimentari, alcune bevande.
Il problema è che oggi occorre essere o diventare “di culto”, il che significa anche la capacità di essere o diventare controversi, con la capacità di gestirne le contraddizioni: inevitabilmente se molti ti amano, qualcuno ti odierà (lo ha scoperto recentemente anche Silvio Berlusconi, ricevendo una riproduzione del Duomo di Milano in faccia…).
Ulteriore considerazione: però le marche, come le persone, non possono essere tutte eccellenti, di culto e controverse in modo interessante. Ci sarà (penso) sempre bisogno anche di marchi mediocri che fanno onestamente il proprio lavoro senza suscitare grandi emozioni.
Complimenti a Marco per l’articolo.
Gianni
Io ho una visione più drastica della cosa.
Prova a pensare a Internet come a un mondo fatto di paesi. Esistono paesi dove le marche entrano solo se hanno il passaporto e altri dove non possono entrare.
Mi spiego:
una tipologia di paese sono le community o i forum. Lì non hanno accesso, non hanno il passaporto. Lo scambio di informazioni, il più delle volte, non prevede governabilità. Le marche che spesso provano ad entrare finiscono solo per darsi la zappa sui piedi, perché l’informazione non è libera e sincera. Presente quando un finto consumatore finge di recensire positivamente un prodotto ma in realtà dietro la sua identità si nasconde un dipendente dell’azienda?
Ecco.
Esistono poi paesi dove il passaporto serve, penso a zzub.it (lo conoscevi?). Le marche sono accettate perché la community stessa è incentrata sul giudizio di prodotti e sulla loro pubblicità tramite passaparola.
Insomma: parlare di Internet in generale, per me, ha già in sé un errore di forma. La governabilità della marca è accettata e di conseguenza fattibile solo in alcuni luoghi di Internet. In altri si può solo comunicare in modalità limitata e la governabilità diventa pressoché impossibile, perché sa di falso. E perché Internet è di tutti. Concetto che è pregio ma allo stesso tempo limite della governabilità della brand image.
Certo che lo conosco Roby, tu lavori per loro?
No, mi ci sono iscritto l’anno scorso con la speranza di guadagnare qualche regalo. Poi ho lasciato perdere perché per avere un numero sufficiente di crediti è necessario starci dietro in modo sistematico. Mi sono reso conto che non avrei mai vinto nulla, c’è gente con un numero di crediti impossibile da battere. Meglio lasciar perdere. però ogni tanto mi arrivano gli inviti a campagne via mail, e di tanto in tanto ci butto l’occhio per vedere come si evolve la comunicazione su quel sito. Insomma: lo uso più per aggiornamento professionale e curiosità. Ma la curiosità è aggiornamento professionale, no? 🙂
molto interessante Marco anche se nn sono d’accordo su tutti i punti.
Sul primo punto ad esempio..
uno di quei gruppi l’ho fatto espandere io con attività di seeding. Riguardo al suffisso Italia ti dò torto.
Una fan page su fb se è utilizzata bene non è solo un bottone da cliccare (diventa fan) e poi la si abbandona. Ma si crea una community o per lo meno del buzz. E cosi si sta facendo almeno nella pagina dove io lavoro.
Se adidas portogallo farà un torneo di street soccer a porto e lo comunichera sulla sua fan page geolocalizzata.. avrà colpito il suo target.
Così se renault presenta i suoi nuovi modelli sabato ad Amburgo con il pilota X … lo scriverà su fb renault Germania.. e prenderà il target.
Io sono fan di Apple o di Nutella.. ma la geolocalizzazione è importante e lo sarà sempre di + … prendi ad esempio google goggles.
buone feste
Daniele
Ciao Daniele. Non posso che essere d’accordissimo con te sul marketing geolocalizzato e sui LBS, ne avevo anche scritto qui:
http://internetpr.it/2009/02/09/google-latitude-e-il-marketing/
Col mio punto 1) non intendevo affatto criticare gli usi “local” di FB. Ben vengano, sono sicuro saranno sempre di più e sempre più interessanti. Mi rendo anche benissimo conto che un brand ha bisogno di creare dei network locali sui cui far leverage con attività offline etc etc
Mi ponevo solo una domanda: il soddisfare queste esigenze che rappresentazione di marca dà? Siamo abituati a percepire i brand globali come fortemente univoci: una voce, un’immagine una faccia, un sogno…
Sul web mi pare ci stiamo invece avviando verso soluzioni in cui le brand identities saranno sempre più sfaccettate, diversificate… vivisezionate dalla struttura e natura stessa della rete. Non sogneremo più tutti la stessa marca, ma ognuno la sua. Mica dico sia un male, è solo un gran cambio di passo per chi le marche le gestisce…
Ciao Marco,
forse ognuno di noi ha sempre sognato la sua marca, solo che prima non potevamo dirlo 🙂
Mi è apiciuto moltissimo il tuo post, ma anch’io nutro qualche dubbio sul punto della localizzazione.
L’idea di un Brand che avesse un’immagine globale univoca secondo me è stato un grande sogno mai realizato dai pubblicitari. Pensa che un business per cui ho lavorato a lungo, quello dei trattori, ha sempre correttamente cercato di costruire un Brand globale, ma si scontrava non solo con le specificità nazionali, ma addirittura regionali e il percepito del Brand a Modena o Cuneo era diverso.
Insomma, la vivisezione c’è, è innegabile, solo che ora dobbiamo affrontarla, prima facevamo finta di niente.
E secondo me sarà una scoperta affascinante!
Concordo con molte delle opinioni espresse nel post e nei commenti a seguire.
Una buona strategia di marca dovrebbe prevedere la coesistenza “sinergica” sia di una presenza “global”, sia di una locale.
La cosa avrebbe un forte senso non solo sul fronte Twitter, ma anche su Facebook e altre piattaforme di Social Media.
Proviamo però a essere concreti: quante realtà internazionali sono in grado di sviluppare un approccio così strutturato in cui headquarter e filiali suonano affiatate come un’unica orchestra? E con quali tempistiche?
La risposta è visibile in rete.
Infatti se è vero che le grandi aziende hanno spesso budget consistenti a disposizione, è anche vero che il top management (che è quello che può far sì che le cose accadano) sta ancora cercando di capire “certi mezzi nuovi” e quindi non è sempre disponibile ad “attivare” team internazionali (con costi annessi e connessi) per lavorarci sopra.
A noi addetti ai lavori servono idee chiare ma anche determinazione e perseveranza…
Grazie Andrea, infatti il punto è proprio quello che testimoni tu. (oltre al problema di attività locali che sottolineavano altri in precedenza). Infatti è una bella sfida…
Ciao Marco. mi vengono in mente due osservazioni anche se il discorso è molto più ampio. Io credo che una maggiore trasparenza, se per trasparenza intendiamo un asset strategico gestito come tale, porterà un maggiore potere contrattuale alle aziende/marche. penso (solo un esempio) a un prodotto che condivide con i consumatori le informazioni fondamentali sulla sostenibilità del suo ciclo di vita rispetto ad uno che non lo fa. e’ quella parte non indifferente del potere contrattuale che si chiama reputazione, fiducia…
secondo, sono d’accordo con chi dice che il cambio di mentalità, strumenti e struttura debba essere sostenuto dai vertici aziendali. Pur essendo parte di quei vertici fino a poco tempo fa, mi limitavo a vedere internet come una parte tattica della mia comunicazione, e non come l’opportunità di una diversa gestione strategica dell’identità di marca. Non penso che giorni e giorni di seminari e formazione avrebbero mai cambiato quell’atteggiamento, se non avessi scelto di diventare, per motivi e percorsi strettamente personali, parte attiva della rete – e allora i miei occhi hanno visto un mondo completamente diverso.
Infine su una cosa penso siamo molto d’accordo: la strategia, appunto. non si può approcciare un mondo complesso come questo senza avere una chiara visione di dove si vuole arrivare e come.
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